martedì 19 marzo 2019

Claritudo alla Basilica di San Celso

Il 23 marzo 2019 alle 18 inaugura alla Basilica di San Celso la mostra Claritudo a cura di Angela Madesani con Elisabetta MeroIn mostra sono le opere di 5 protagonisti dell’arte contemporanea: Satoshi Hirose, Maria Lai, Jacopo Mazzonelli, Elisabeth Scherffig, Antonio Trotta.



Qui riportiamo il testo di Angela Madesani che accompagna la mostra, che resterà aperta sino al 14 aprile. 

Claritudo, luminosità trasparente è il concetto guida della rassegna. Luce di conoscenza, di sapienza, luce spirituale, che trova nell’arte un veicolo di trasmissione. La mostra è stata concepita appositamente per il luogo, uno dei più importanti della cristianità milanese, la cui fondazione si situa nell’VIII secolo d.C.. L’attuale facciata è stata arretrata rispetto all’originaria, durante la ricostruzione della stessa da parte di Luigi Canonica, noto architetto svizzero, esponente del Neoclassicismo. Facciata che, tuttavia presenta alcuni elementi originari. Dettagli della scultura romanica in cui pare di riconoscere certi momenti di quel Medioevo fantastico così approfonditamente studiato dallo storico dell’arte lituano Jurgis Baltrušaitis.

San Celso è una basilica romanica ad andamento longitudinale, a tre navate in rapporto 1:2, senza transetto, con abside unica semicircolare, internamente scandita, alla base del semicatino da un fregio continuo ad archetti, in cui le opere dei 5 artisti si pongono in dialogo con lo spazio di fede, come spiega la scheda della Soprintendenza.

Ciò che non so è il titolo del piccolo libro di Maria Lai (1919-2013) del 1984. Si situa tre anni dopo Legarsi alla montagna, un’opera fondante per la storia dell’arte contemporanea, che mette in crisi qualsiasi forma di retorica, operando sul concetto di trasformazione, attraverso la ritualità collettiva. Il suo libro ricamato, con i fili che diventano  materia tattile, segno e colore, è un atto di umiltà, è la consapevolezza di non sapere, un’antidichiarazione. In un’intervista del 1993 l’artista parlando dei libri afferma: «I miei spazi si erano dilatati e proiettati sempre più in lontananza, ma era nato anche, come ho già accennato, un bisogno di intimità nel colloquio col fruitore. Così sono nati i miei libri, che chiedono di essere “toccati” oltre che guardati e i cui fili affiorano come da luoghi sotterranei. Le incertezze e i grovigli esprimono la mia tensione verso altri spazi».

Quelli della mente e dello spirito.

Di Antonio Trotta (1937) è il grande libro Filosofia, con il titolo scritto in caratteri greci, di marmo bardiglio imperiale. È un libro che non si apre e che è opera stessa. Per lo scultore la materia è un problema di luce. Qui il riferimento è alla cultura, alla grecità di cui un uomo del sud Italia come Trotta è figlio.

L’artista ama citare un pensiero di Heidegger “che l’Arte instaura il luogo”, il luogo d’origine della nostra cultura, l’acropoli. Qui la conoscenza si pone in serrato dialogo con il luogo sacro, quello dedicato al divino. Marco Senaldi in un testo sullo scultore italo-argentino ha scritto che la scrittura è per lui una “terza via”, un cammino che affiora evidente nell’enigmatico lavoro in mostra. 

Il mutamento, l”in fieri”, condizione imprescindibile della vita, è momento fondante della ricerca di Elisabeth Scherffig (1949). Sull’altare, una di fronte all’altra sono poste due sue sculture. Una è il calco della sua testa coperto d’oro. È il pieno in contrapposizione al vuoto della leggera e trasparente testa di organza di seta e porcellana, ricavata sempre da un calco della sua testa. Sul cranio è la mappatura sommaria dei vasi sanguigni, dove passano la linfa vitale, il pensiero, che costituisce l’unicità dell’essere umano. È un modo di metterne a nudo la processualità, di palesarlo nei suoi meccanismi. Un sampietrino d’oro posto su una base di ardesia rimanda alla Pietra filosofale, oggetto alchemico, che nella tradizione è dotata di poteri straordinari, è atto a fornire un elisir di lunga vita, fare acquisire l’onniscenza e trasformare i metalli vili in oro appunto, simbolo della gloria terrena e celeste.

Solo di Jacopo Mazzonelli (1983) è un’opera sull’uomo. Il suono di un violoncello, nel suo registro acuto, che si approssima al violino, sembra un pianto. Il violoncellista abbraccia lo strumento e diviene un unicum con esso. Attraverso la musica, l’essere umano riesce a giungere ad atmosfere altre, con un processo di trasformazione teso a superare i nostri limiti.

Doors, porte, indica l’accesso a nuove dimensioni, anche spirituali. La porta non è soltanto un elemento di separazione, quanto piuttosto la parte portante di un processo, che ha a che fare con la natura spirituale e misterica dell’esistenza.

In Doors la porta è tripartita e l’artista a tale proposito spiega: «La scelta di tripartire tale oggetto non è casuale, si riferisce infatti a due elementi distinti che rappresentano il nucleo concettuale dell’operazione. Da un lato la musica, dove tre elementi - nel caso specifico tre note musicali sovrapposte - se ordinate secondo precise regole di natura acustica vanno a formare un accordo; dall’altro lato l’alchimia, intesa non solo come trasformazione del metallo grezzo in oro, quanto come simbolico processo interiore dell’operante - l’alchimista».

Come in Maria Lai così in Satoshi Hirose (1963) è la sacralità del quotidiano nell’opera Star Dust (2000), lunga oltre nove metri, che pende dal soffitto e si piega a terra. È come una sottile stele fatta di pasta, di stelline blu, un omaggio alla Colonna infinita di Constantin Brâncuși. Sul pavimento di cotto della chiesa ancora stelline del colore del cielo, un colore che richiama il lapislazzulo della pittura medioevale e rinascimentale. La pasta nelle sue molteplici forme lo affascina, lo cattura nella sua complessità semplice. Hirose opera una trasformazione linguistica dei materiali. Una pietra di fiume dipinta con i colori dell’acqua è posta nel fonte battesimale. È l’evocazione della sua origine, la memoria della materia. Una sfera di vetro trasparente è posta in una nicchia con un affresco romanico. Essa riesce a convogliare lo spazio e a modificarlo. L’artista giapponese ama sottolineare certe vicinanze tra la sua cultura orientale e quella occidentale che lo ha adottato, è la sua la volontà di trovare una matrice comune di natura esistenziale che, di volta in volta,  si adatta ai diversi momenti, ai differenti frangenti in cui ci troviamo ad agire.