A Roma, a due passi dalla splendida celebre Piazza Navona, nel Chiostro del Bramante, Spazio Gallerie, che accoglie molteplici interessi culturali, in una fantasmagoria d’intenti e attese, è di scena, fino al 2 maggio, il pittore Natale Addamiano (Bitetto, 1943) che presenta le sue opere in contemporanea e in parallelo a una raccolta di acquerelli di Joseph Mallor William Turner (1775-1851), che Matteo Galbiati, curatore della mostra, legge in naturale convergenza con l’artista pugliese; ormai di stanza a Milano da una vita, e cittadino del mondo nell’ultimo ventennio.
Visioni che, inverosimilmente, nella loro eleganza formale affascinano, in un vortice di stupori e turbamenti, per una forza centrifuga di passioni inesauste, incuriosito dall’arcano: mondi e stelle lontane anni luce, con dei bagliori di un firmamento di verità soprannaturali, in una rappresentazione magica. La chiave creativa dell’artista: incantesimo e malia, nella continuità di quei nitori di un tempo, trasferiti ora nell’immensità di un creato impalpabile nella scala di cromie altre. In una luce filtrata, per immergersi nel prodigio imponderabile di azzurri, celestini cangianti, bluastri e violacei lividi, o rosa d’ infinite sfumature, sino a languire in giallini tiepidi e passionali. Dal punto di sorgente, dagli impulsi punteggiati, fintanto il pianeta rotea imperturbabile nella volta celeste.
Così nelle notti serene e silenziose, seguendo sperdute mappe di stelle di galassie lontane, o cadenti in quelle di calde estati. A perderci nell’immensità di spazi incredibili, a volte solcati da fiocchi di nubi intense o avviluppati in una luce di luna, desolata e spettrale. Un’evoluzione d’indubbia analisi della natura, secondo la prodigiosa osservazione che ha spostato in alto quella linea d’orizzonte, che per anni era a margine delle sue tele, a donarci una visione raggrumata in «paesaggi» straordinari, dalle mille variopinte pennellate, come tessere d’un mosaico antico. Che qui, per altro verso espositivo, sono presenti e si raffrontano, avvolti da un sole spietato che invade la scena a infiammare e abbagliare i burroni delle Murge in tutte le stagioni, in un’aspra e intrigante bellezza.
All’occasione tagliata dalle ombre oblique, in segmenti di spigoli e proiezioni, dai contrasti cromatici netti come cesoie, sotto una lingua di cielo, che s’incunea al centro della scena di due costoni. Infatti, venticinque le opere, ripartite tra «I cieli stellati», e, in controluce, le «Gravine», in una simbiosi poetica inesauribile. Da una parte l’immensità di universi profondi, solcati dalle costellazioni, in giochi di fantasie curiose di asterismi della volta celeste, a fantasticare forme e triangolazioni di una mitologia misteriosa, per una sovrapposizione di velature cromatiche dagli effetti imprevedibili, a ricostruire immagini diafane, come danze leggere. Dall’altra le atmosfere e gli scenari di una Puglia che conserva incontaminata la sua morfologia da fiaba, investigandone i territori percorsi da una vegetazione a macchia di leopardo di un paesaggio unico: dagli umidi meandri dei costoni scoscesi, alle pietre assolate, di sporgenze e rialzi, su aree di terre e argille, altrettanti residui di alluvioni e terricci fertili. Dove l’aria si arricchisce di aromi e gli sfondi sfumano in una luce irreale.
Coi silenzi lunghi e avvincenti, rotti, di tanto in tanto, dallo stridìo di falchetti, nel volteggio di cerchi fantastici, e di notte i versi cupi e rapaci di barbagianni e civette. Queste le visioni poetiche di un artista, che riporta nella memoria immagini uniche negli sguardi di ciglia socchiuse dal riverbero di una luce esplosiva, la luce meridiana che abbacina fulgente, dandoti lo smarrimento di sensi di una libertà spaziale ineguagliabile.
Testo di Manlio Chieppa pubblicato su Pentagrammi di marzo 2018