Sabato 14 aprile ore 17.30 alla galleria Zetaeffe si terrà il finissage della mostra di Fernando Cucci.
Con Fernando Cucci c’incontriamo nel suo studio che occupa le stanze d’un luminoso appartamento decorato di trompe-l’oeil e fregi da “Secondo Impero”. Mentre mi mostra le sue opere spiegandone i titoli, i materiali e le tecniche usate, Fernando butta là che è nato a Ugento. È un flash che illumina le radici del suo lavoro. È dal crogiolo magmatico del Salento che viene l’ispirazione.
Visualizzo un ricordo. Ero al Museo Archeologico di Taranto e non riuscivo a staccare gli occhi da un bronzo del VI sec. a. C. che è stato realizzato lì, col metodo della fusione a cera persa. In lingua messapica è indicato come ZisBatàs, lo “Zeus Saettante”, e fu ritrovato per caso a Ugento nel 1961, nei lavori di ampliamento di una casa privata. La statua rappresenta il dio con la barba corta, i lunghi capelli annodati a trecce e un copricapo di foglie d’alloro e roselline. È colto nell’atto di scagliare con la mano destra un fulmine. Nella sinistra restano gli artigli di un’aquila mai rinvenuta.
Non l’ho raccontato per civetteria intellettuale ma per mettere a fuoco il contesto e l’humus da cui proviene Fernando. Che parla della sua arte collocandola sempre dentro i canoni d’armonia e d’equilibrio della sezioneaurea. È un concetto che in matematica e in architettura si indica con la lettera greca ϕ (phi) dall’iniziale del nome di Fidia che l’applicò per le dimensioni del Partenone. In seguito fu chiamato “numero aureo”, “divina proporzione” da Pacioli e Piero della Francesca, “uomo vitruviano” da Leonardo, “successione numerica” da Fibonacci. È questo ideale classico che nutre il lavoro di Cucci.
L’altra fonte d’ispirazione è il viaggio. Quello fisico legato alla geografia e quello immaginario che si fa a ritroso nelle Storia e nella Memoria. Col viaggio anche Fernando, come tanti giovani del Sud, fece da subito i conti. Perché fu costretto a emigrare per proseguire gli studi all’Istituto Statale d’Arte di Firenze, poi all’Accademia delle Belle Arti e alla Kustgewerbeschule di Basilea. Dove il richiamo all’essenzialità che era l’imperativo del Bauhaus gli impose la scelta dei materiali da usare. Volutamente poveri ed elementari.
Su un supporto di legno prima crea una base che può essere di malta, iuta, sabbia, calce spenta. La lavora con strati che si sovrappongono e altri che vengono raschiati. Poi interviene con pigmenti naturali e con segni che si rifanno agli antichi alfabeti, alle iscrizioni sacre, alle formule matematiche, agli schizzi di architettura. Si possono leggere e decrittare. Sono stratigrafie portate alla luce, totemici atlanti di pietra. Hanno titoli che evocano il viaggio. Ci sono 4 esemplari di “Charta”; opere che si chiamano “mappa”, “il grande cammino”, “oltre l’orizzonte”, “miraggio”. E poi “reperto”, “reliquia”, “calendario”, “incognito”. E anche 8 sculture in calcare e in terracotta.
Di cosa parlano questi lavori? Del Mito. Non sorprende che un figlio della Messapia si confronti con lo smarrimento del Labirinto; con la fragilità superba del Volo di Icaro; con la Trama ostinatamente disfatta da Penelope; con l’Ignoto che Ulisse affronta per raggiungere la Conoscenza. E poi vi si legge altro. Queste opere sono a metà tra il rudere e il reperto archeologico. Ci dicono che nel DNA di Cucci è presente Ugento devastata prima dai Saraceni, poi dalla vendicativa regina di Napoli, Giovanna, e nel 1537 messa a sacco e definitivamente spopolata a causa dei Turchi.
Che cosa impressiona della mostra? La vitalità materica che si fa astratta attraverso la corrosione, il graffio, la levigatura. E l’Invisibile che riemerge prepotente. Mi frulla in testa una definizione di Osip Mandel’stam dell’Armenia: “ regno di pietre urlanti”. Anche queste opere sono impregnate di voci e di sacralità ma la religione non c’entra. Lo scavo è il laico tentativo di Fernando di ricongiungersi con l’energia primordiale che muove il mondo e i nostri passi.
Testo a cura di Ivan Teobaldelli
Galleria ZetaEffe
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