domenica 9 aprile 2017

Georges Claude Boissonnade - Trittici

In un documentario facilmente consultabile su internet, Gerhard Richter, nella sua giovinezza, già affermava: «Parlare di pittura è difficile, se non addirittura privo di senso. Perché infatti si può mettere in parole unicamente ciò che può essere messo in parole, espresso per mezzo del linguaggio. Ora, non è il caso della pittura.»

Ecco, qui bisogna sottolineare che queste pitture vengono esposte in una libreria, una di quelle che sanno far vivere ciò che è stato scritto. 

Richter prosegue: «A questo si aggiungono certi cliché come: a che cosa pensa creando questo quadro? Non si può pensare a niente… la pittura è un modo di pensiero in sé. D’altra parte in pittura, e questo concerne il che cosa e il come, mi interessa soltanto quello che non afferro. Ed è così ogni volta. Trovo cattivi i quadri che comprendo».

La scrittura offre il suo nutrimento, il suo risveglio, la caffeina della coscienza, nel suo lineare dispiegarsi (si legge e si scrive una parola dopo l’altra). La pittura invece capta in blocco l’occhio e la mente e, poiché è astratta, disturba il bisogno di comprensione agevole, lineare, discorsiva. Essa lascia “senza parole”. In questa libreria, regno della parola distesa sulla carta, io propongo delle pitture astratte su carta. Allora, quale logica paradossale si gioca qui?

«La tua pittura è musicale» mi è stato detto, un po’ con la voglia di spiegare tutto tramite questa scorciatoia. Sì, ma solo un poco, perché la musica dispiega il suo fascino anch’essa in modo lineare. E tuttavia la musica è molto importante, considerando l’enorme influenza che per me ha avuto il canto corale, da più di trent’anni. Mi fermo un momento su questo punto: la trasparenza della struttura verticale della musica, come l’ho vissuta nel mio corpo durante l’esecuzione di tutto il repertorio di canto a cappella a quattro voci, – dai canti gregoriani fino a Schönberg – è un’esperienza che impregna l’essere in primo luogo sul piano fisico, su quello intellettuale a seguire. Ho visto così ammorbidirsi il centro stesso della mia reattività pitturale in ciascuna delle mie decisioni plastiche istantanee; ho cominciato ad affrontare ogni problema sentendomi autorizzato a praticare i voltafaccia del contrappunto – fatto di frizioni, interferenze – con intento puramente ludico e altrettanto arrischiato, a volte glaciale, ma non importa, purché la sorpresa fosse abbastanza grande da farmi sorridere. E di sorriso in sorriso, una risoluzione si è imposta, una risoluzione che non vuole essere fissa né conclusiva (sennò è la morte!). 

«Un quadro astratto non nasce spontaneamente, ma nasce senza disegno, senza intenzione preventiva» affermava ancora Richter al suo tempo. Io desidero fortemente andare più avanti in questo non-volere, in questa imprevedibilità liberatrice. Rifiuto la produzione in serie, specchio obbediente alla razionalizzazione consumista contemporanea. Niente giustifica ai miei occhi una ripetizione gestuale, coloristica, grafica. Sento salire la nausea al minimo riflusso di auto-déjà-vu. Da sempre coltivo l’ambizione che questo lavoro della libertà, gioiosamente rivendicato con un solido marameo, abbia un impatto forte sull’occhio di colui che guarda, lo sconcerti e nel medesimo tempo lo rassicuri. Con lui condivida la sana collera, l’attitudine a tradire le attese, smantellare le abitudini e le certezze, certo giocosamente, ma in piena coscienza degli abissi imprevedibili dell’arte e della realtà. Continuare questa strana impresa dell’astrazione che dura da più di un secolo: mostrare le cose sottosopra, come la famosa tela di Kandinsky poggiata all’inverso sul cavalletto, quella fatidica sera del 1908.

Comunque, Trittici… perché questo nome? Perché 3 sta fra 2 e 4: due è insufficiente, quattro è troppo. Scherzo, ma è vero. Gettate uno sguardo su tutte le cose di questo mondo. (Georges Claude Boissonnade )


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