giovedì 19 maggio 2011

ALLA VITA di Nazim Hikmet

Gli dispiaceva morire. Ma siccome morire è indispensabile, si era augurato una morte come questa , rapida e decisa.

ALLA VITA

La vita non è uno scherzo,
prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell'al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.

La vita non è uno scherzo,
prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini,
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita.

La vita non è uno scherzo,
prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant'anni, ad esempio,
pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli,
ma perché non crederai alla morte,
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.


Morì di un infarto a Mosca, al numero 6 della via Pescianaia, il 3 giugno del '63, verso le nove del mattino.
Lì per lì non se ne accorse nessuno. Era già morto da mezz'ora, quando lo trovarono accasciato accanto alla porta che dà sul pianerottolo, appoggiato allo stipite, in un atteggiamento quasi naturale. La porta era socchiusa. Forse stava uscendo per prendere la posta nella cassetta dell'atrio, o a fare due passi al sole. Il viso sembrava tranquillo. L'infarto era stato folgorante.

Gli dispiaceva morire. Ma siccome morire è indispensabile, si era augurato una morte come questa , rapida e decisa.
Fu composto nella bara aperta, con molti fiori. Rimase così col viso scoperto e col suo abito migliore, secondo la costumanza russa, fino a che non fu calato nella fossa.

Suo figlio Mehmet arrivò da Varsavia per vederlo, insieme alla madre. Mehmet , nei suoi dodici anni di vita, aveva visto pochissimo questo padre favoloso, cui somiglia molto: grande, con gli occhi celesti e i capelli di un biuondo un pò rossiccio.

Quando lo vide disteso nella bara, con le mani molto belle disposte ordinatamente sulla giacca ben stirata, ebbe una grande scossa e si sentì male. Tirò il braccio della madre e si lamentò che gli girava la testa e che stava per vomitare. Munevver lo afferrò per la spalla e gli disse che non poteva né vomitare né cadere né andarsene; e nennmeno fare smorfie. Così Mehmet stette davanti al padre morto per ore e ore, composto, senza piangere.

Quasi quarant'anni prima, il 22 gennaio 1924, Hikmet aveva montato la guardia accando al volto scoperto di Lenin dentro la bara disadorna, immobile e turbatissimo come Mehmet: Lenin era stato per lui il padre grande e favoloso, assai più reale del pascià dal quale era nato, in un sontuoso palazzo di Salonicco, ai tempi dell'impero ottomano.
Hikmet aveva sessant'anni e li portava assai bene, salvo la malattia di cuore, che non appariva; anzi gli dava quel colorito fresco e rosato che hanno spesso i cardiopatici. Era un uomo bello e amabile, che si muoveva con grazia e vivacità, e sapeva parlare con tutti nel modo più estroso e diretto.Era un grande poeta e un combattente fiero e valoroso, e piaceva alle donne.

Ma questo eccesso di doti aveva come correttivo un ingualcibile candore, una capacità di fiducia, di meraviglia e di rispetto verso l'umanità e verso le cose.. Non vi era in lui ombra di cinismo o di meschinità; ma solo, qualche volta, di leggerezza e di egoismo.

Era appasionatamente legato alla sua terra turca, non meno per la sua scelta che per destino. La mescolanza di origini, di culture e di esperienze diverse ne avevano fatto un essere ricco e originale, levigato dalle discipline ma sdegnoso di esrvire. Non si piegava ai compromessi, nemmeno a quelli che in generale, con sottile opportunismo, si definiscono necessari. Questo prigioniero minacciato per anni d'impiccagione, questo poeta che non poteva pubblicare un verso nella sua lingua e nel suo paese, questo malato senza speranza di guarigione, è vissuto come un uomo libero, padrone sempre di se stesso e della sua condizione consapevolmente affrontata.(Joyce Lussu)

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