lunedì 31 ottobre 2016

JazzMI 2016... ed è solo il primo di una lunga serie.

Mentre Torino dice addio al suo Festival (il sindaco Appendino colpisce ancora, n.d.r.), Milano si appresta a vivere dal 4 al 15 novembre un grande evento di musica jazz tra concerti, mostre, incontri, workshop, rassegne e - come si dice in questi casi ma non a caso - molto e molto altro.

Leaning Tower Of Horn By JOHN LURIE

E' il JAZZMI 2016, un festival che intende rappresentare al meglio l'universo musicale del Jazz con la sua storia, il suo presente e il suo futuro, i suoni con cui dialoga.

Un evento in cui sarà possibile ascoltare grandi nomi internazionali ma pure le promesse, le possibili star, italiane ed europee, del domani. Un festival che vuole mettere in rilievo l'importantissima scena Jazz milanese e italiana.

Sono previste oltre 120 situazioni, diffuse in luoghi diversi della città : si va dalle scuole alle associazioni, dalle rassegne ai club, grandi e piccoli, noti e meno noti. Una ragnatela di collaborazioni fra soggetti che a Milano si occupano di Jazz tutto l'anno e tra i quali figura il Teatro dell'Arte della Triennale con i suoi 14 eventi tutti da 'primafila' :

RON CARTER GOLDEN STRIKER TRIO - VEN, 4 NOV - 21.00
Sir Ron Carter è il perfetto contrabbassista jazz. Le sue risorse tecniche e musicali sono illimitate, come anche la sua leggendaria reputazione.

THE AZIZA QUARTET - SAB, 5 NOV - 21.00
Nell'ambito di JAZZMI 2016, un concerto con Dave Holland, Chris Potter, Lionel Loueke ed Eric Harland.

CLAUDIO FASOLI QUARTET - SAB, 5 NOV - 12.00
Un jazzista di statura internazionale e nella sua lunga carriera ha collaborato con mostri sacri quali Lee Konitz, Henri Texier e Dave Holland e, tra gli italiani, con Giorgio Gaslini e Enrico Rava.

CHRISTIAN SCOTT QUINTET - SAB, 5 NOV - 23.00
Christian Scott, vincitore dell'Edison Award e nominato per il Grammy Award come miglior trombettista, compositore, produttore e designer per strumenti musicali, a JAZZMI 2016.

GIANNI CAZZOLA QUINTET - DOM, 6 NOV - 12.00
A Tribute to Billie Holiday è un viaggio nella vita e nelle canzoni di una delle più grandi interpreti di jazz di tutti i tempi.

SONS OF KEMET - DOM, 6 NOV - 19.00
Il gruppo miscela vari stili e in particolare jazz, musica tribale e la ruvidità del rock. 

JACOB COLLIER + BILL LAURANCE - MAR, 8 NOV - 21.00
Una specie di "one man band digitale" che si serve di tutta le moderna tecnologia disponibile. In apertura, Bill Laurance (Snarky Puppy).

JOHN SCOFIELD -COUNTRY FOR OLD MEN - MER, 9 NOV - 21.00
Uno dei chitarristi più interessanti della scena internazionale, capace di suonare più di uno stile musicale con raro virtuosismo.

JUNUN - JONNY GREENWOOD, SHYE BEN TZUR, RAJASTHAN EXPRESS - GIO, 10 NOV - 21.00
Junun è un progetto di Jonny Greenwood (Radiohead) in collaborazione con il musicista israeliano Shye Ben Tzur e i nove componenti del Rajasthan Express, un’orchestra tradizionale indiana. 

GILLES PETERSON FEAT. MC EARL ZINGER - VEN, 11 NOV - 23.00
Gilles Peterson ha disegnato un percorso unico che a partire dalle radici primordiali della musica africana si inoltra nella cultura del basso giamaicana, un viaggio musicale alla continua ricerca del “perfect beat”.

ENRICO INTRA - INTRA PLAYS INTRA - SAB, 12 NOV - 12.00
Pianista, compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra tra i più importanti nella storia del jazz europeo.

ROBERT GLASPER EXPERIMENT - SAB, 12 NOV - 23.00
Robert Glasper ha dato vita a un universo sonoro di incredibile forza, complessità e raffinatezza. Risultato di queste contaminazioni sono le vittorie di due Grammy Awards.

GOGO PENGUIN - DOM, 13 NOV - 19.00
Il trio piano-basso-batteria di Manchester propone un jazz moderno e contaminato da ritmi tipici della musica elettronica.

ENRICO RAVA, MATTHEW HERBERT E GIOVANNI GUIDI - DOM, 13 NOV - 21.00
Sonorità tipiche del cool jazz e della fusion che si legano a elementi di matrice elettronica in un’unica sessione d’improvvisazione liberatoria.


JAZZMI è ideato e prodotto da Teatro dell'Arte e Ponderosa Music & Art, in collaborazione con Blue Note Milano, realizzato grazie al Comune di Milano - Assessorato alla Cultura, sotto la direzione artistica di Luciano Linzi e Titti Santini.

lunedì 24 ottobre 2016

Di pietra e d’oro. Il Ponte Vecchio di Firenze, sette secoli di storia e di arte

Un’intera mattinata a Palazzo Vecchio, dedicata alla cultura, curata dalla rivista “MCM - La Storia delle Cose” fondata nel 1985. Mercoledì 26 ottobre, dalle ore 9 alle 13 nel Salone dei Cinquecento, saranno presentati un libro e il primo dei due numeri della rivista edita da Maria Cristina de Montemayor, curati in occasione dell’anniversario dei 50 anni dall’alluvione di Firenze.

Il libro dal titolo Di pietra e d’oro. Il Ponte Vecchio di Firenze, sette secoli di storia e di arte è la prima monografia che tratta in maniera organica la plurisecolare storia del Ponte Vecchio, esponendo - con testi in italiano e in inglese - le vicende storiche, artistiche e architettoniche del monumento-immagine noto in tutto il mondo, singolare luogo di lavoro e simbolo stesso della capacità di resistere a guerre e alluvioni. 

Il volume si apre con la presentazione di Dario Nardella (Sindaco di Firenze), Eugenio Giani (Presidente del Consiglio Regionale della Toscana), Luigi Dei (Rettore dell’Università di Firenze) e con l’introduzione di Eike Schmidt (Direttore delle Gallerie degli Uffizi). Con la copertina realizzata ad hoc dall’artista fiorentino Stefano Ficalbi, il volume si propone anche di far chiarezza su taluni aspetti che negli ultimi 70 anni hanno dato origine a vere e proprie leggende, come il motivo dell’apertura dei tre finestroni del Corridoio Vasariano nella parte centrale del ponte e la spiegazione del “salvataggio” del Ponte Vecchio durante la ritirata tedesca dell’agosto 1944.

A seguire verrà presentato “Documento Alluvione, 1966-2016”, primo di due numeri monografici della testata ”MCM - La storia delle cose” dedicato, oltre che alla rievocazione storica dell’evento, a fornire un quadro della situazione attuale da un punto di vista sia della sicurezza idraulica della città, sia della tutela dei beni pubblici e privati. Il numero è introdotto dalla vicesindaco Cristina Giachi, e ospita i contributi di un responsabile dell’Autorità di bacino, Protezione Civile, Vigili del fuoco, Opificio delle Pietre Dure, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Museo Galileo Galilei e di altri enti comunque coinvolti. Il secondo numero di “MCM - La Storia delle Cose” (che sarà disponibile a fine novembre e verrà presentato nella sede del Consiglio Regionale della Toscana) prevede, tra l’altro, il conto di quanto è stato fatto in questi ultimi e di quanto ancora è necessario fare per l’affermazione di una Nuova Cultura del Rischio ma anche per comprendere esattamente quanta parte del nostro patrimonio culturale è ancora da recuperare 50 anni dopo il terribile cataclisma.

L’evento in Palazzo Vecchio sarà introdotto dalla Vicesindaco Cristina Giachi, dal Presidente del Consiglio Regionale della Toscana Eugenio Giani, dal Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Firenze Luigi Dei, dal Direttore delle Gallerie degli Uffizi Eike Schimdt.

A seguire, gli interventi di Cristina Acidini, Presidente dell’Accademia delle Arti del Disegno, di Dora Liscia Bemporad, Docente di Storia Arti Applicate e Oreficeria Università di Firenze. In particolare, per il numero della rivista dedicato all’alluvione, prenderanno la parola Marcello Brugioni, Dirigente Autorità di bacino fiume Arno, Marco Ciatti, Soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure, Giuseppe De Micheli, Segretario Generale dell’Opera di Santa Croce.
Condotta dal giornalista Marco Ferri, la mattinata si concluderà con l’intervento di Maria Cristina de Montemayor, curatrice e editore delle pubblicazioni.

Per ulteriori info, contattare la Redazione di “MCM”: Tel. 055 670661 o spedire un’email all’indirizzo: storiadellecose@gmail.com








venerdì 21 ottobre 2016

Gioseffo Zarlino e la scienza della musica nel ‘500 dal numero sonoro al corpo sonoro

Sabato 22 ottobre alle ore 18.00 si terrà, presso i nuovi spazi della Galleria d’Arte 2000 & NOVECENTO di Reggio Emilia in Via Sessi 1/F, la presentazione del libro di Guido Mambella Gioseffo Zarlino e la scienza della musica nel ‘500 dal numero sonoro al corpo sonoro” pubblicato a maggio 2016 dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti di Venezia.

Un dialogo, alla presenza dell’autore, con il professor Cesarino Ruini, ordinario di storia della musica medievale e rinascimentale all’Università di Bologna, e con la professoressa Monica Boni, direttrice della Biblioteca Armando Gentilucci dell’Istituto Peri di Reggio Emilia. 

Un libro, i cui contenuti appassioneranno sia i cultori di storia della scienza, di musica nonché di arte.
Questo volume, come ha scritto Giulio Cattin, si presenta con caratteri di unicità e grande forza innovativa: “Non conosco nella storiografia italiana della teoria musicale uno scritto che gli possa stare accanto per l’originale solidità d’impostazione, l’ampiezza d’informazione, l’acutezza interpretativa e la ricchezza del materiale, anche di prima mano, proposto al lettore”.

Per la copertina di questo libro è stato scelto un particolare dell’opera dell’artista cremonese Enrico Della Torre “Costruzione” (2011). Il quadro farà parte della mostra personale “Figuratività dell’Invisibile” che la Galleria d’Arte 2000 & NOVECENTO dedica a questo autore e che sarà in corso durante la presentazione del libro. 

L’opera di Gioseffo Zarlino, maestro di cappella di San Marco e massimo teorico musicale del Cinquecento, è sempre stata considerata un monolite, un perenne monumento del pensiero, la cui compattezza e coerenza sembrano andare oltre i secoli. Ancora per tutto il Settecento il maestro veneziano è una fonte imprescindibile. L’immensa impresa di una costituzione ab aeterno dell’arte musicale, su basi matematiche e insieme naturali, lo colloca in una sfera senza tempo in cui i martelli di Pitagora risuonano nell’armonia di Rameau. Altra è la prospettiva di questo studio che intende riportare Zarlino nella storia: nel suo originale ampio recupero della tradizione musicale greco-latina, nei rapporti spesso conflittuali con i teorici a lui più vicini, i contemporanei e gli allievi, nel procedere stesso del suo pensiero che, tra le prime e le ultime formulazioni, vede un tale rivolgimento di presupposti, «dal numero sonoro al corpo sonoro» appunto, da rendercelo vivo, problematico e di una irrisolta complessità.

Guido Mambella studia flauto dolce e viola da gamba e, in seguito, clavicembalo. Si laurea in filosofia alla Sapienza di Roma, con una tesi sulla scienza musicale di Descartes. Prosegue gli studi a Parigi, presso il centro Alexandre Koyré, curando infine l’edizione del Compendio di musica cartesiano. Questo volume è il risultato delle sue ricerche sulla teoria musicale del Rinascimento.
Seguirà aperitivo.

La personale di Enrico Della Torre “Figuratività dell’Invisibile” e la presentazione del libro di Guido Mambella fanno parte della terza edizione della rassegna “In Contemporanea” che vede l’apertura congiunta della stagione espositiva autunnale in sette gallerie d’arte di Reggio Emilia.


Per informazioni: 
2000 & NOVECENTO Galleria d’Arte         
Via Sessi 1/F | 42121 Reggio Emilia  
Tel. 0522 580143 Fax. 0522 496582  
duemilanovecento@tin.it | www.duemilanovecento.it 
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Ufficio Stampa:
CSArt - Comunicazione per l’Arte
Via Emilia Santo Stefano 54 | 42121 Reggio Emilia         
Tel. 0522 1715142 | www.csart.it | info@csart.it



giovedì 13 ottobre 2016

Bob Dylan è Nobel 2016

Il Nobel per la Letteratura 2016 è stato assegnato a Bob Dylan (Robert Allen Zimmerman) per aver "creato una nuova espressione poetica nell'ambito della tradizione della grande canzone americana". Lo ha reso noto quest'oggi il Comitato dei Nobel a Stoccolma.

Poco più di un anno fa Bob Dylan è stato premiato come persona dell’anno “per i suoi straordinari meriti creativi” dalla giuria dei Grammy Awards alla cerimonia di MusiCares, la charity organization che sostiene e assiste i musicisti in difficoltà. 

In quell'occasione l'artista fece un lungo intervento di ringraziamento : 

"Sono contento che le mie canzoni ricevano questi onori. Ma sapete, non sono arrivate fin qui da sole. È stata una lunga strada e ci è voluto tanto da fare. Queste mie canzoni, sono come i racconti del mistero, del genere che Shakespeare vedeva da ragazzo. Penso che si potrebbe cercare le tracce di quel che faccio tornando così lontano nel tempo. Erano ai margini allora, e penso che siano ai margini ora. Si direbbe che abbiano sempre trovato un terreno duro.

Dovrei ricordare un po’ di persone che ho incrociato lungo la strada che ha condotto a tutto questo. So che dovrei citare John Hammond, grande talent scout per la Columbia Records. Mi ha ingaggiato per quell’etichetta quando non ero nessuno. Ci volle un bel po’ di fede per farlo, e se la risero parecchio di lui, ma era il suo uomo. Fu coraggioso. E per questo, gli sono eternamente grato. L’ultima persona che scoprì prima di me era stata Aretha Franklin, e prima di lei Count Basie, Billie Holiday e un sacco di altri artisti. Tutti artisti non commerciali.

 Ciò che faceva tendenza, a John non interessava, e io ero molto non commerciale, ma lui mi rimase vicino. Credeva nel mio talento e questo è tutto quel che contava. Non potrò ringraziarlo abbastanza per questo.
Lou Levy gestisce Leeds Music, e furono loro che pubblicarono le mie prime canzoni, ma non ci rimasi troppo a lungo. Ma lo stesso Levy si era esposto parecchio. Mi ingaggiò per quella società e incise le mie canzoni, le cantai incidendole su un registratore. Mi disse senza tanti giri di parole che quello che facevo non aveva precedenti e che o anticipavo il mio tempo o lo seguivo. E che se gli avessi portato una canzone come “Stardust”, l’avrebbe rifiutata perché arrivava troppo tardi.

Mi disse che se anticipavo i tempi – e lui di certo non lo sapeva – ma se stava accadendo e se era vero, ci sarebbero voluti dai tre ai cinque anni perché il pubblico recuperasse il ritardo – e così bisognava essere preparati. E questo accadde. Il guaio era che, quando il pubblico mi raggiungeva, io ero già avanti di tre -cinque anni, e quindi era alquanto complicato. Ma m’incoraggiava, non era giudicante, e io lo ricorderò sempre per questo.

Artie Mogull, della Witmark Music, mi fece firmare in un posto vicino alla sua società, e mi disse di continuare a scrivere canzoni non importa cosa, che forse c’era qualcosa in quel che facevo. Be’, anche lui mi sostenne, e non vedeva l’ora di vedere quel che gli avrei portato di nuovo. Non mi pensavo neppure come un cantautore prima di allora. Gli sarò sempre grato anche per questo suo modo di fare.

Devo anche ricordare alcuni dei primi artisti che registrarono le mie canzoni nei primissimi tempi, senza che gli fosse chiesto. Sentivano semplicemente qualcosa in quelle canzoni che gli andava a genio. Devo dire grazie a Peter, Paul e Mary. Conobbi ognuno di loro separatamente prima ancora che diventassero un gruppo. Neppure mi pensavo come uno che scriveva canzoni perché le cantassero altri, ma cominciava a succedere e non sarebbe potuto accadere per o con un gruppo migliore.

Presero una mia canzone che era stata registrata prima e poi seppellita in uno dei miei dischi e la trasformarono in una canzone di successo. Non come l’avrei fatto io – loro la compattarono. Ma da allora centinaia di persone l’hanno incisa e non credo che sarebbe successo se non fosse stato per loro. Indubbiamente, fu qualcosa che per me iniziò grazie a loro.

The Byrds, The Turtles, Sonny & Cher – furono loro che presero alcune delle mie canzoni e le portarono nella Top 10, ma io non ero un autore pop e davvero non volevo esserlo, ma fu bene che andò così. Le loro versioni delle canzoni erano come spot pubblicitari, ma non è che me ne importasse in realtà, visto che cinquant’anni dopo le mie canzoni sono state utilizzate nella pubblicità. Dunque anche così andava bene. Sono stato contento che sia andata così, e sono stato contento che l’abbiano fatto.

Pervis Staples e gli Staple Singers – molto prima che fossero con [l’etichetta] Stax erano con Epic ed erano uno dei miei gruppi preferiti di tutti i tempi. Incontrai tutti loro nel ’62. Ascoltarono le mie canzoni dal vivo e Pervis ne voleva registrare tre o quattro e lo fece con gli Staple Singers. Erano il tipo di artisti che volevo registrassero le mie canzoni.

Nina Simone. I nostri percorsi s’incrociavano a New York City, al club Village Gate. Erano questi gli artisti a cui guardavo. Nina registrò alcune delle mie canzoni che [incomprensibile] per me. Era un’artista travolgente, come pianista, cantante. Una donna molto forte, molto schietta. Che lei incidesse le mie canzoni, era la convalida di tutto quello intorno a cui giuravo.

Oh, e non si può dimenticare Jimi Hendrix. Jimi Hendrix in realtà lo vidi esibirsi quando era ancora in una band chiamata Jimmy James and the Blue Flames – o qualcosa del genere. E Jimi non cantava neppure. Era solo il chitarrista. Prese alcune mie canzoni minori a cui nessuno prestava attenzione e le pompò fin nei confini lontani della stratosfera e li trasformò in classici. Devo ringraziare anche Jimi. Vorrei che fosse qui.

Johnny Cash incise alcune mie canzoni presto, troppo presto, intorno al ’63, quando era tutto pelle e ossa. Viaggiava tanto, viaggiava duro, era un mio eroe. Da ragazzo sentivo molte sue canzoni. Le sue le conoscevo meglio delle mie. “Big River“, “I Walk the Line“.

“How high’s the water, Mama?” scrivevo “It’s Alright Ma (I’m Only Bleeding)”e quella canzone mi riverberava dentro la testa. Tuttora chiedo: “Quanto è alta l’acqua, Ma?” Johnny aveva un carattere intenso. Vedeva che mi stavano mettendo fuori gioco suonando la musica elettrica, e inviava lettere alla stampa rimproverandoli, dicendo loro di stare zitti e di farlo cantare.

Nel mondo di Johnny Cash – il denso dramma del Sud – questo genere di cose non esisteva. Nessuno diceva a nessuno cosa cantare o cosa non cantare. Semplicemente non si faceva questo genere di cose. Non finirò di ringraziarlo per questo. Johnny Cash era un gigante di uomo, the man in black. Mi era particolarmente cara l’amicizia che avevamo fino al giorno in cui non ci sono più giorni.

Oh, e sarei negligente se non citassi Joan Baez La regina della musica folk, allora e ora. Prese in simpatia le mie canzoni e mi portava con sé a fare concerti, dove aveva folle di migliaia di persone affascinate dalla sua bellezza e dalla sua voce.

Le dicevano: “Che ci fai con quel piccolo vagabondo con le pezze?” E lei diceva a tutti senza mezzi termini, “Ora fai meglio a tacere e ascolta le canzoni.” Abbiamo anche suonato alcune canzoni insieme. Joan Baez è decisa e diretta. Love. Ed è uno spirito libero, indipendente. Nessuno può dirle cosa fare se non vuole farlo. Ho imparato un sacco di cose da lei. Una donna dall’onestà devastante. E per il suo tipo di amore e devozione, non potrò mai ripagarla.

Queste canzoni non sono venute fuori dal nulla. Non le ho inventate di sana pianta. Contrariamente a quello che diceva Lou Levy, c’era un precedente. Tutto è venuto fuori dalla musica tradizionale: musica folk tradizionale, rock ‘n’ roll e big-band tradizionale e musica tradizionale delle grandi orchestre dello swing.

Ho imparato i testi e ho imparato come scriverli ascoltando le canzoni folk. Le ho suonate e ho conosciuto altre persone che le suonavano fin dai tempi in cui nessuno lo faceva più. Non cantavano altro che queste canzoni folk, e mi spiegarono il codice di tutto ciò che è un gioco giusto nel quale tutto appartiene a tutti.

Per tre o quattro anni tutto quello che ascoltavo era folk. Andavo a dormire cantando canzoni folk. Le cantavo ovunque, club, feste, bar, caffetterie, prati, festival. E conoscevo altri cantanti lungo la strada che facevano la stessa cosa e imparavamo le canzoni l’uno dall’altro. Potevo imparare una canzone e cantarla in meno di un’ora se l’avevo sentita anche una sola volta.

Se aveste cantato “John Henry” tante volte quante l’ho cantata io “John Henry was a steel-driving man / Died with a hammer in his hand / John Henry said a man ain’t nothin’ but a man / Before I let that steam drill drive me down / I’ll die with that hammer in my hand.” Se aveste cantato pure voi quella canzone tutte le volte che l’ho cantata io, avreste scritto anche voi “How many roads must a man walk down?

Big Bill Broonzy aveva una canzone intitolata “Key to the Highway”. “I’ve got a key to the highway / I’m booked and I’m bound to go / Gonna leave here runnin’ because walking is most too slow.” L’ho cantata una sacco di volte. Se la canti tanto, potresti pure scrivere
Georgia Sam he had a bloody nose
Welfare Department they wouldn’t give him no clothes
He asked poor Howard where can I go
Howard said there’s only one place I know
Sam said tell me quick man I got to run
Howard just pointed with his gun
And said that way down on Highway 61

L’avreste scritta anche voi se avesse cantato tanto come ho fatto io “Key to the Highway”.
Ain’t no use sit ‘n cry / You’ll be an angel by and by / Sail away, ladies, sail away.” “I’m sailing away my own true love.” “Boots of Spanish Leather – Sheryl Crow proprio questo cantava.“Roll the cotton down, aw, yeah, roll the cotton down / Ten dollars a day is a white man’s pay / A dollar a day is the black man’s pay / Roll the cotton down. Se l’avessi cantata, quella canzone, tante volte quanto me, avresti scritto anche “I ain’t gonna work on Maggie’s farm no more”

Ho cantato un sacco di canzoni alla “Oh come all you”. Ce ne sono tantissime. Ce ne sono troppe per contarle tutte. “Come along boys and listen to my tale / Tell you of my trouble on the old Chisholm Trail” Oppure: “Come all ye good people, listen while I tell / the fate of Floyd Collins a lad we all know well / The fate of Floyd Collins, a lad we all know well”

“Come ye all fair and tender ladies / Take warning how you court your men / They’re like a star on a summer morning / They first appear and then they’re gone again.” “If you’ll gather ‘round, people / A story I will tell / ‘Bout Pret>”Come ty Boy Floyd, an outlaw / Oklahoma knew him well.”

Se cantaste tutto il tempo tutte queste canzoni alla “Oh come all ye” scrivereste “Come gather ‘round people where ever you roam, admit that the waters around you have grown / Accept that soon you’ll be drenched to the bone / If your time to you is worth saving / And you better start swimming or you’ll sink like a stone / The times they are a-changing.”

L’avreste scritte anche voi. Non vi è nulla di segreto. Lo fai in modo subliminale e inconscio, perché basta questo, ed è tutto questo che cantavo. Questo era tutto ciò che mi era caro. Erano gli unici tipi di canzoni che avessero senso.

“When you go down to Deep Ellum keep your money in your socks / Women in Deep Ellum put you on the rocks.” Canta per un po’ quella canzone e finiresti per arrivare a “When you’re lost in the rain in Juarez and it’s Easter time too / And your gravity fails and negativity don’t pull you through / Don’t put on any airs / When you’re down on Rue Morgue Avenue / They got some hungry women there / they really make a mess outta you.”

Tutte queste canzoni sono collegate. Non fatevi prendere in giro. Ho solo aperto una porta diversa in un modo diverso. È solo diverso, per dire la stessa cosa. Non pensavo che fosse qualcosa fuori del comune.
Be’, sapete, pensavo solo di fare qualcosa di naturale, ma fin dall’inizio, per qualche ragione, le mie canzoni dividevano. Dividevano le persone. Non ho mai capito perché. A certi facevano arrabbiare, ad altri piacevano. Non so perché le mie canzoni avessero detrattori e sostenitori. Era una situazione strana nella quale buttare le canzoni ma io l’ho fatto comunque.

L’ultima cosa a cui pensassi era a chi interessava che canzone stessi scrivendo. Le stavo semplicemente scrivendo. Non pensavo di fare qualcosa di diverso. Pensavo solo che stavo stendendo un verso. Forse un po’indisciplinatamente, ma stavo solo elaborando pensieri su situazioni. Forse difficili da mettere a fuoco, ma che importa? Un sacco di persone, è difficile definirle. Devi solo sopportarlo. Davvero non m’interessava quello che Lieber e Stoller pensassero delle mie canzoni.

A loro non piacevano, ma a Doc Pomus sì. Era giusto che a loro non piacessero, le mie canzoni, perché neanche a me sono mai piaciute le loro. “Yakety yak, don’t talk back.” “Charlie Brown is a clown,” “Baby I’m a hog for you”. Canzoni alla moda Non erano niente di serio. Ma le canzoni di Doc erano meglio: This Magic Moment. Lonely Avenue. Save the Last Dance for Me.
Quelle canzoni mi hanno spezzato il cuore. Ho sempre pensato che preferivo essere benedetto da Doc Pomus piuttosto che da loro.

Ahmet Ertegun non aveva una grande opinione delle mie canzoni, Sam Phillips sì. Ahmet aveva fondato la Atlantic Records. Produsse alcuni grandi dischi: Ray Charles, Ray Brown, solo per citarne alcuni.
Sì, c’erano alcuni grandi dischi lì, non c’è dubbio. Ma Sam Phillips, è stato lui a far incidere Elvis e Jerry Lee, Carl Perkins e Johnny Cash. Occhi radicali che scuotevano l’essenza stessa dell’umanità. Una rivoluzione per stile e portata. Nella forma tosta e nel colore. Radicali fino all’osso. Canzoni che ti tagliano fin nelle ossa. Renegades a tutti i livelli, che facevano canzoni che non sarebbero mai decadute, e che risuonano ancora oggi. Oh, sì, preferisco avere ogni giorno la benedizione di Sam Phillips.

Merle Haggard non aveva in grande considerazione le mie canzoni. A me non lo diceva ma so [incomprensibile]. Buck Owens invece sì, e registrò alcune delle mie prime canzoni. Merle Haggard – “Mama Tried,” “The Bottle Let Me Down,” “I’m a Lonesome Fugitive.” Non riesco a immaginare Waylon Jennings che canta “The Bottle Let Me Down.”
“Together Again”? Questo è Buck Owens, e che trionfi qualsiasi cosa venga da Bakersfield. Buck Owens e Merle Haggard? Se si deve avere la benedizione di qualcuno – si può immaginare di chi.

Già, i critici. Mi hanno dato filo da torcere fin dal primo giorno. I critici dicono che non so cantare. Che gracchio. Come una rana. Perché i critici non dicono la stessa cosa di Tom Waits? I critici dicono che la mia voce è spompata. Che non ho voce. Perché non dicono queste cose di Leonard Cohen? Perché riservano solo a me questo trattamento speciale? I critici dicono che non so tenere una nota e che mi trascino nelle canzoni. Davvero? Non ho mai sentito dire nulla del genere a proposito di Lou Reed. Perché lui riesce a farla franca?

Che cosa ho fatto mai per meritarmi questa attenzione speciale? Dicono che non ho un’estensione vocale, per esempio, ma quando è stata l’ultima volta che avete sentito Dr. John? Perché non lo dite a lui? Dicono che farfuglio le parole, che non ho dizione. Ma voi avete mai sentito Charley Patton o Robert Johnson, o Muddy Waters?. E parlate di parole biascicate e di cattiva dizione. [Incomprensibile] non importa.
“Perché proprio io, Signore?” Direi lo stesso per me.

I critici dicono che stritolo le mie melodie, rendo le mie canzoni irriconoscibili. Oh, davvero? Consentitemi di dirvi una cosa. Ero a un incontro di pugilato qualche anno fa, Floyd Mayweather contro un giovane portoricano. Qualcuno ha cantato l’inno nazionale portoricano, ed era bello. Veniva dal cuore ed era toccante.

Dopo di che arriva il momento del nostro inno nazionale, e una soul sister molto popolare è scelta per cantarlo. Canta ogni nota che esista e anche alcune che non esistono. Ecco cosa vuol dire fare scempio di una melodia. Prendi una parola di una sola sillaba e la fai durare per 15 minuti? Faceva ginnastica vocale come fosse su un trapezio. Per me, non è stato divertente.

Dov’erano i critici? Storpiare i testi? Massacrare una melodia? Una canzone preziosa? Sono io a prendermi la colpa. Ma non penso davvero di farlo, penso solo che siano i critici a dirlo.
Sam Cooke lo disse quando affermò che lui aveva una bella voce. E disse: “Be’, è molto gentile da parte vostra, ma le voci non dovrebbero essere valutate per quanto sono carine. Sono interessanti solo se ti convincono che stanno dicendo la verità”. Pensateci la prossima volta.

I tempi cambiano sempre. Cambiano davvero. E devi essere sempre pronto per qualcosa che sta arrivando e che non ti saresti mai aspettato. Una volta, tempo fa, ero a Nashville per fare alcuni dischi e leggo un articolo, un’intervista con Tom T. Hall. Tom T. Hall si lamentava di non so che tipo di nuova canzone, e diceva che non riusciva a capire cosa fossero questi nuovi tipi di canzoni che stavano arrivando.
Ebbene, Tom era uno dei cantautori più autorevoli del tempo a Nashville. In tanti registravano le sue canzoni, compreso lui stesso. Ma stava sollevando un polverone intorno a James Taylor, per una canzone che James aveva chiamato “Country Road.” Tom era fuori di sé nell’intervista – “Ma James non parla proprio di una strada di campagna Dice solo come ci si può sentire sulla strada di campagna. Non la capisco”.

Ora qualcuno potrebbe dire che Tom è un grande cantautore. Non intendo metterlo in dubbio. All’epoca in cui rilasciava questa intervista stavo in realtà ascoltando una sua canzone alla radio.
S’intitolava “I Love“. L’ascoltavo in uno studio di registrazione, e parlava di tutte le cose che gli piacciono, una sorta di canzone dell’uomo qualunque, che cerca di mettersi in relazione con le persone. Che cerca di farti pensare che lui è proprio come te e tu sei proprio come lui. Che a tutti noi piacciono le stesse cose, e siamo tutti sulla stessa barca. A Tom piacciono gli anatroccoli, i treni in lento movimento e la pioggia. Gli piacciono i vecchi pick-up e i ruscelletti di campagna. Gli piace dormire senza sognare. Un bicchiere di Bourbon. Una tazza di caffè. Pomodori e vino, e cipolle.

Ora ascoltate, io non denigrerò mai un altro cantautore. Non ho intenzione di farlo. Non sto dicendo che è una brutta canzone. Sto solo dicendo che potrebbe essere un po’ troppo cotta. Ma, sapete, è finita comunque nella Top 10. Tom e pochi altri autori avevano tutta la scena Nashville sigillata in una scatola. Se si voleva registrare una canzone e farla arrivare nella Top 10 si doveva andare da loro, e Tom era uno di quelli che erano in cima. Erano tutti molto a loro agio, a fare le loro cose.

Erano più o meno i tempi in cui Willie Nelson prendeva le sue cose e si trasferiva in Texas. Sì, più o meno lo stesso periodo. E lui è ancora in Texas. Tutto era come si deve. Tutto andava bene fino a quando – fino a quando – Kristofferson arriva in città. Oh, non si era visto nessuno come lui. Era venuto in città come un gatto selvatico, era arrivato in volo con il suo elicottero fin nel cortile di Johnny Cash, come il tipico cantautore. E colpì alla giugulare. “Sunday Morning Coming Down.”

Well, I woke up Sunday morning
With no way to hold my head that didn’t hurt.
And the beer I had for breakfast wasn’t bad
So I had one more for dessert
Then I fumbled through my closet
Found my cleanest dirty shirt
Then I washed my face and combed my hair
And stumbled down the stairs to meet the day.


Nashville va vista prima e dopo Kristofferson, pre-Kris e post-Kris, perché lui cambiò tutto. Quella canzone rovinò le partite a poker di Tom T. Hall. Avrebbe potuto mandarlo al manicomio. Dio non voglia che abbia sentito la mia canzone.
You walk into the room
With your pencil in your hand
You see somebody naked
You say, “Who is that man?”
You try so hard
But you don’t understand
Just what you’re gonna say
When you get home
You know something is happening here
But you don’t know what it is
Do you, Mister Jones?

Se “Sunday Morning Coming Down” aveva scosso la gabbia di Tom, l’aveva mandato ai pazzi, la mia canzone sicuramente gli avrebbe fatto saltare le cervella, proprio lì nel minivan. Per fortuna non la sentì.
Ho appena pubblicato un album di standard, tutte le canzoni di solito eseguite da Michael Buble, Harry Connick Jr., forse Brian Wilson ne fatte un paio, Linda Ronstadt. Ma le recensioni dei loro dischi sono diverse rispetto alle recensioni del mio disco.

Nelle recensioni su di loro nessuno dice niente. Nelle recensioni su di me, [incomprensibile] hanno voluto guardare sotto ogni pietra, quando si tratta di me. Hanno avuto modo di citare tutti i nomi degli autori. Be’, per me è OK. Dopo tutto, sono grandi autori e queste sono canzoni standard. Ho visto le recensioni in arrivo, e citeranno tutti gli autori dei pezzi in metà della recensione, come se tutti li conoscessero. Nessuno ne ha mai sentito parlare, non in questo periodo, in ogni caso. Buddy Kaye, Cy Coleman, Carolyn Leigh solo per citarne alcuni.

Sono contento che citino i loro nomi, e sapete una cosa? Sono contento che abbiano avuto i loro nomi sui giornali. C’è voluto un po’ di tempo, ma finalmente sono lì. Posso solo chiedermi perché ci sia voluto così tanto tempo. Il mio unico rammarico è che non siano qui per vederlo.

Il rock ‘n’ roll tradizionale, è di questo che parliamo. Tutta questione di ritmo. Johnny Cash lo diceva benissimo: “Get rhythm. Get rhythm when you get the blues.” Molte poche band di rock ‘n’ roll di oggi suonano con ritmo. Non sanno cosa sia. Il rock ‘n’ roll è una combinazione di blues, ed è una cosa strana fatta di due parti. Un sacco di gente non lo sa, ma il blues, che è una musica americana, non è quello che si pensa che sia. È una combinazione di violini arabi e valzer di Strauss, è da lì che vien fuori. Ed è vero.
L’altra metà del rock ‘n’ roll ha da essere hillbilly, campagnolo. E questo è un termine dispregiativo, anche se non dovrebbe esserlo. Questo è un termine che comprende Delmore Bros., Stanley Bros., Roscoe Holcomb, Clarence Ashley, insomma gruppi del genere. Furiosi distillatori di frodo. Auto veloci su strade sterrate. Questo è il tipo di combinazione che costituisce il rock ‘n’ roll, e non può essere cucinato in un laboratorio scientifico o in uno studio.

Bisogna avere il giusto tipo di ritmo per suonare questo tipo di musica. Se a mala pena suoni il blues, come fai a [incomprensibile] gli altri due tipi di musica che ci sono lì dentro? Si può fingere, ma non ce la puoi fare davvero farlo.

I critici si sono fatti una carriera accusandomi di aver fatto carriera confondendo le aspettative. Davvero? Già, questo è tutto quello che faccio. È così che la penso. Confondere le aspettative.
“Ehi tu, cosa fai per vivere,?”
«Oh, confondo le aspettative.”
Stai andando a cercare lavoro, e quello ti chiede: “Che cosa fai?” “Oh, confondo le aspettative. E quello gli fa:”Be’, quel posto è già preso. Telefonaci nuovamente. Anzi, no, ti chiameremo noi”. Confondere le aspettative. Che vuol dire? ‘Perché, proprio io, Signore? Li confonderei pure, ma non so come farlo.

I Blackwood Bros. Mi hanno parlato di un disco da fare insieme. Il che potrebbe confondere le aspettative, ma non dovrebbe. Naturalmente sarebbe un album di gospel. Non penso che sarebbe qualcosa di straordinario per me. Neanche un po’. Una delle canzoni che penso canterò è “Stand By Me” dei Blackwood Brothers. Non “Stand By Me“, la canzone pop. No. Il vero “Stand By Me“.
When the storm of life is raging / Stand by me / When the storm of life is raging / Stand by me / When the world is tossing me / Like a ship upon the sea / Thou who rulest wind and water / Stand by me
In the midst of tribulation / Stand by me / In the midst of tribulation / Stand by me / When the hosts of hell assail / And my strength begins to fail / Thou who never lost a battle / Stand by me
In the midst of faults and failures / Stand by me / In the midst of faults and failures / Stand by me / When I do the best I can / And my friends don’t understand / Thou who knowest all about me / Stand by me

Questa è la canzone. Mi piace di più della canzone pop. Se ne incido una con quel titolo, sarà quello. Sto anche pensando di registrare una canzone, non per questo album, però: “O Signore, per favore fai sì che non frainteso.” In ogni caso, perché proprio io, Signore. Che cosa ho fatto?

Comunque, sono orgoglioso di essere qui stasera per MusiCares. Sono onorato di avere tutti questi artisti che cantano le mie canzoni. Non c’è niente di simile. Grandi artisti. Sono tutti a cantare la verità, e lo potete sentire nelle loro voci.

Sono orgoglioso di essere qui stasera per MusiCares. Ho grande considerazione di questa organizzazione. Hanno aiutato molte persone. Molti musicisti che hanno dato molto alla nostra cultura. Vorrei ringraziarli personalmente per quello che hanno fatto per un mio amico, Billy Lee Riley[18]. Un mio amico, che hanno aiutato per sei anni in cui era giùo e non riusciva a lavorare. Billy era un figlio del rock ‘n’ roll, ovviamente.

Era veramente originale. Ha fatto di tutto: Ha suonato, cantato, scritto. Sarebbe stato una stella più grande, se non fosse apparso Jerry Lee. E sapete cosa succede quando arriva uno così. Semplicemente non tocchi più palla.
Così Billy è diventato quel che si dice nel settore – il termine di chi guarda dall’alto in basso, tra l’altro – come un one-hit wonder. Ma a volte, solo a volte, una volta ogni tanto, un one-hit wonder può avere un impatto più potente di una stella chi ha venti o trenta hit alle spalle. E la hit song di Billy si chiamava “Red Hot“, ed era davvero piccante. Ti poteva far esplodere il cranio e fartene sentire felice. Cambiare la vita.

Lo faceva con stile e grazia. Non lo troverete nella Rock and Roll Hall of Fame. Lui non c’è là. Metallica sì. Abba c’è. I Mamas and the Papas – so che sono lì. Jefferson Airplane, Alice Cooper, Steely Dan – non ho niente contro di loro. Soft rock, hard rock, pop psichedelico. Non ho niente contro nessuna di quella roba, ma dopo tutto, è chiamato il Rock and Roll Hall of Fame. E Billy Lee Riley non c’è. Non ancora.

Io lo vedevo un paio di volte l’anno e ci piaceva sempre passare del tempo insieme e lui era nel circuito nostalgico dei festival di rockabilly, e i nostri percorsi s’incrociavano di tanto in tanto. Avremmo passato il tempo sempre insieme. Era un mio eroe. Avevo sentito “Red Hot”. Dovevo avere solo 15 o 16 anni, quando l’ascoltai e mi impressionò e tuttora lo sento.

Non mi sono mai stancato di ascoltarla. E non mi stancavo mai di guardare Billy Lee eseguirla. Passavamo il tempo insieme solo parlando e suonando nella notte. Era un uomo profondo, sincero. Non aveva amarezza o nostalgie. Accettava quel che era. Sapeva da dove era venuto ed era contento di quello che era.
Un giorno poi si è ammalato. E come il mio amico John Mellencamp canterebbe – perché John cantò qualche verità oggi – un giorno ti ammali e non migliori. Questo dice una canzone dal titolo “Life is Short Even on Its Longest Days.” “La vita è breve anche sui suoi giorni più lunghi”. È una delle migliori canzoni degli ultimi anni, davvero. E non sta mentendo.

E io non mento quando vi dico che MusiCares ha pagati le parcelle mediche del mio amico, e l’ha aiutato a ottenere denaro da spendere. Sono stati almeno in grado di rendere la sua vita comoda, tollerabile fino alla fine. Questo è qualcosa che non può essere ripagato. A qualsiasi organizzazione che faccia questo va la mia benedizione.

Adesso è il momento di andarmene di qui. Metto un uovo nella scarpa e lo sbatto. Probabilmente ho lasciato fuori un sacco di gente e detto troppo su alcuni. Ma va bene così. Come lo spiritual, ‘I’m still just crossing over Jordan too Speriamo di rivederci. Prima o poi. E così sarà, se, come dice Hank Williams, “il buon Dio lo vorrà e il torrente non si gonfia.”"


Il testo di Bob Dylan è stato tradotto da Guido Moltedo e pubblicato su https://ytali.com/ con l'aggiunta di alcune note che lo hanno reso più completo.



domenica 9 ottobre 2016

Marianne Werefkin. I colori di un’anima in viaggio.


Marianne Werefkin. I colori di un’anima in viaggio” è il titolo della settima mostra che Artrust allestirà a Melano, Svizzera, dal 10 ottobre al 10 dicembre 2016. La mostra, aperta dal lunedì al sabato dalle 10 alle 18 a ingresso libero, ripercorrerà la carriera di Marianne Werefkin, attraverso una quarantina di opere, alcune delle quali mai esposte prima in pubblico, rappresentative delle diverse tappe della sua vita e del suo peregrinare tra Russia, Germania, Svizzera e Italia. In mostra anche alcune opere del compagno di Werefkin, il pittore Alexej Jawlensky. L’allestimento è realizzato dall’Arch. Eleonora Castagnetta Botta.

Artista russa, nata nel 1860 a Tula, Werefkin è stata protagonista, per molto tempo sottovalutata, dell’evoluzione artistica europea del ‘900. È lei la vera anima del gruppo espressionista tedesco Der Blaue Reiter (Il Cavaliere Azzurro), che riunisce Kandinskij, Marc, Klee, Macke e Jawlensky. Con lo scoppio della prima guerra mondiale si trasferisce in Svizzera. Muore ad Ascona nel 1938 dove lascia un ricordo indelebile del suo passaggio in tutta la comunità.

«Per la nostra settima mostra abbiamo scelto Marianne Werefkin, non solo perché è un’artista così strettamente legata al nostro territorio – afferma Patrizia Cattaneo Moresi, Direttrice di Artrust – ma in quanto, in un anno che abbiamo voluto dedicare alle donne nel mondo dell’arte, rappresenta con la sua biografia un esempio delle difficoltà di essere donna e contemporaneamente artista agli inizi del secolo scorso. Tanto che il carisma e il talento di Werefkin hanno iniziato solo recentemente a occupare il posto che meritano sui manuali di storia dell’arte».

La mostra è corredata da un catalogo a colori, realizzato ed edito da Artrust, con testo critico della Dott.ssa Mara Folini, tra le massime esperte mondiali dell’artista, nonché direttrice del Museo Comunale di Ascona.

A margine della mostra sono previste numerose iniziative e incontri. Al tema dei diritti delle donne e di quelli legati alla nazionalità, strettamente correlati alla biografia di Marianne Werefkin, sarà dedicato un ciclo di eventi che vedranno la collaborazione e la partecipazione di Amnesty International Ticino, con il coinvolgimento in particolare ragazzi e adolescenti, e delle associazioni Ava Eva, che raggruppa le nonne militanti della Svizzera Italiana, e AARDT (Archivi Riuniti delle Donne Ticino), associazione che conserva opere, diari e materiali che documentano le esperienze e la vita delle donne ticinesi.

Come nelle precedenti esposizioni, inoltre, Artrust organizzerà visite dedicate e una serie di laboratori didattico-artistici per bambini dai 3 ai 10 anni. Presso la sede di Melano, le educatrici di Artrust utilizzeranno le opere di Marianne Werefkin per momenti di didattica e di gioco basati sui temi dell’espressionismo, dei colori e del viaggio, mentre presso il Comune di Melano, in collaborazione con il Museo in Erba, saranno organizzati atelier artistici nel corso dei quali ogni bambino potrà creare il suo piccolo capolavoro ispirato alle tecniche e ai temi dell’artista.


Marianne Werefkin - I colori di un’anima in viaggio
ARTRUST S.A.
Melano () - dal 10 ottobre al 10 dicembre 2016
Via Pedemonte 1 (6818)
+41 91 649 33 36 , +41 91 648 33 75 (fax)
www.artrust.ch





domenica 2 ottobre 2016

Hen House - Mattia Pajè

Sponge ArteContemporanea presenta per l'apertura della nona stagione espositiva Hen-House, un progetto di Mattia Pajè con Mimì Enna, Marco Casella, Marcello Tedesco, Irene Fenara, Daniele Pulze, Francesca Bertazzoni, Filippo Marzocchi, Giuseppe De Mattia.


Sponge ArteContemporanea presenta Mattia Pajè con il progetto Hen-House, a cura di Stefano Volpato, articolato in una mostra personale all’interno del Living Space di Casa Sponge e una collettiva presso il pollaio, da cui il titolo dell’operazione concepita per l’apertura della nona stagione di Sponge ArteContemporanea. Due differenti piani di intervento, che con un taglio “sartoriale” si relazionano con la felice realtà di Casa Sponge, col suo essere liminare ma pulsante, protetta ma viva e disponibile alle ibridazioni, alla discussione, al mettersi in gioco sui temi riguardanti non solo la produzione, ma anche la curatela del contemporaneo.

Mattia Pajè, giovane artista milanese di nascita, bolognese d’adozione, realizza un intervento che si inserisce con tatto e delicatezza nell’atmosfera domestica di Casa Sponge: il suo video è riprodotto nella piccola tivù del salotto, che il visitatore o l’ospite di passaggio può comodamente guardare seduto sul divano o in poltrona. Interessato all’esplorazione e all’interazione con gli spazi e i luoghi, alla loro messa alla prova, Pajè ha concentrato la sua attenzione su di un luogo marginale e, ai più, nascosto di Casa Sponge, ma assolutamente integrato e vitale nel suo ecosistema: il pollaio, la cui architettura è frutto di anni di paziente e sapiente costruzione e assemblaggio di materiali poveri, rurali (come lastre onduline, pali grezzi, reti metalliche). In questo spazio sono invitati altri otto artisti – oltre allo stesso Pajè, si tratta di Mimì Enna, Marco Casella, Marcello Tedesco, Irene Fenara, Daniele Pulze, Francesca Bertazzoni, Filippo Marzocchi, Giuseppe De Mattia – a esporre un proprio lavoro, che avrà quale pubblico gli abitanti del pollaio quali galline, conigli, piccioni nel totale rispetto del loro benessere. Il video di Pajè installato in Casa Sponge documenta quindi l’interazione dei pennuti con il suo lavoro e con quelli degli altri otto artisti allestiti in una vera e propria collettiva nel pollaio, dalle cui personali poetiche emerge un affine interesse per operazioni di lettura e costruzione ipertestuale di luoghi, spazi o collegamenti tra essi. Una mostra collettiva dunque, dentro una mostra personale: Hen-House è una scatola cinese che suggerisce molteplici letture di un già non canonico spazio espositivo, dei lavori in esso, delle relazioni tra i lavori e il loro allestimento, del loro “essere in mostra”.

La mostra collettiva stessa risulta infatti decontestualizzata e rifunzionalizzata nel lavoro personale di Pajè, in una sorta di ready-made meta-curatoriale. D’altra parte, il lavoro dell’artista – l’organizzazione di elementi naturali, segni, suoni, concetti secondo una poetica ed un pensiero critico – assomiglia sempre più a quello del curatore – organizzatore a sua volta di lavori, interventi, accadimenti in un dispositivo, prima di tutto di pensiero, quale è una mostra. Di qui il continuo e fertile oscillare sul limite fluido tra le due figure, tra due atteggiamenti, nella comune ricerca di significato.

Sponge ArteContemporanea con Hen-House aderisce alla dodicesima Giornata del Contemporaneo, sabato 15 ottobre, la grande manifestazione organizzata da AMACI ogni anno per portare l’arte del nostro tempo al grande pubblico.

La mostra, in collaborazione con l’azienda vinicola Terracruda, inaugura a Casa Sponge domenica 2 ottobre 2016 alle ore 12:00 e sarà visitabile su appuntamento fino al 27 novembre 2016.


Info: Sponge Living Space (Casa Sponge)
Via Mezzanotte 84 – 61045 Pergola (PU)
www.spongeartecontemporanea.net
spongecomunicazione@gmail.com
+39 3394918011



Biografia
Mattia Pajè è nato nel 1991 a Milano. Artista visivo, diplomato in metodologia e progettazione per le arti visive presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, da maggio 2016 è direttore artistico di LOCALEDUE a Bologna; è co-ideatore, co-fondatore e co-direttore di Gelateria Sogni di Ghiaccio, spazio di ricerca e sperimentazione libera per le arti contemporanee a Bologna.
Il suo lavoro è stato ospitato in diverse sedi nel territorio Italiano ed estero da spazi no profit e istituzioni tra i quali: ProgettoBorca, Dolomiti Contemporanee (Borca di Cadore, BL); Fondazione Zucchelli (Bologna); Major 28 (Lleida, ES); RAUM (Bologna); UCA Canterbury (Canterbury, UK); OTTO Gallery (Bologna); MAMbo (Bologna).